Viaggio nel manicomio abbandonato di Colorno. Prima parte
Tommaso ci accompagna oggi nella prima parte di un viaggio per il manicomio abbandonato di Colorno, in provincia di Parma. Se da una parte si tratterà di un viaggio temporale, nella storia del manicomio, dall’altra sarà anche un viaggio vero e proprio, grazie alle foto della struttura come si presenta oggi. Buona lettura!
di Tommaso Ferrari
La struttura del manicomio di Colorno (Pr) attualmente versa nel totale abbandono dagli anni ’90, quando fu definitivamente abbandonata. Al suo interno vi sono ancora farmaci, documenti, libri di psichiatria, strumentazione ospedaliera, indumenti, letti, oggetti dei malati, etc.
L’ospedale psichiatrico fu realizzato nei locali dell’ex reggia ducale e del convento di San Domenico nel 1873. Nel corso del XX secolo i malati continuarono ad aumentare per diminuzione della mortalità ma soprattutto per diminuzione delle dimissioni[1], in particolare Colorno divenne il luogo di ricovero per tutti i malati definiti «cronici». Una relazione del direttore dell’ospedale psichiatrico Luigi Tomasi racconta come il manicomio si presentasse nel 1948:
«una specie di orrore sopravvissuto a epoche storiche lontane […]. L’insieme di edifici che lo costituiscono era quanto di più atrocemente inumano e spaventosamente tetro la fantasia potesse rappresentare».[2]
Tomasi prosegue la descrizione dell’ospedale scrivendo come le tubature non portassero acqua ai piani superiori (i malati dovevano quindi lavarsi in cortile) e i rubinetti scaricassero direttamente sul pavimento; l’impianto elettrico fosse sviluppato a «capriccio»; il riscaldamento solamente «teorico»; l’attrezzatura dei reparti ridicola; l’impianto telefonico interno non funzionante; le fognature abbandonate e maleodoranti; il laboratorio scientifico rudimentale; il trasporto cadaveri «come ai tempi dei monatti»[3]. Tomasi conclude spiegando che
«in una parola, di Ospedale, vi era solo il nome e forse qualche timida aspirazione impacciata […]. Tutto il resto […] rivestiva l’aspetto tetro e desolante di una prigione in pessimo stato con le cantine piene d’acqua e fango, con i muri gementi perenne umidità, con i serramenti sgangherati, con […] l’opprimente tinteggiatura grigio-piombo e il tanfo universale delle materie organiche in decomposizione che impregnava la desolazione più squallida mai rallegrata da nessuna distrazione.»[4]
Nel 1952 iniziò lo studio per un piano d’intervento e nel 1955 furono compiuti i lavori necessari per dare all’ospedale un «elementare livello di civiltà (fognature, rete idrica, ecc.)»[5]. Ideologicamente, tuttavia, Colorno rimase semplicemente una cittadella manicomiale da rendere al massimo più umana e aggiornata tecnicamente, ma rigorosamente isolata dal mondo esterno, autosufficiente e autarchica[6].
Nel 1964 nel manicomio erano presenti 991 ricoverati[7] e garantiva posti di lavoro a buona parte dei cittadini colornesi, sia al suo interno sia con l’indotto, «per Colorno il manicomio era come la Fiat per Torino»[8].
Le strutture dell’ospedale negli anni divennero sempre più obsolete e fatiscenti:
«l’inadeguatezza dei locali fu ribadita a più riprese senza produrre significativi cambiamenti né nella struttura né tantomeno nell’assistenza. Solo a metà degli anni sessanta iniziò una nuova fase»[9].
Il 22 febbraio 1965, infatti, Mario Tommasini, esponente del Partito Comunista di Parma, divenne assessore provinciale ai trasporti. Il 26 febbraio ricevette la delega all’organizzazione servizi, lavori e personale dell’ospedale psichiatrico provinciale[10]. Due giorni dopo, per la prima volta, visitò il manicomio: dopo essere uscito e aver vomitato, tornando a Parma in auto pensò di rimettere la delega. Ciò che Tommasini vide nell’ospedale fu «un direttore vecchio e rimbambito», quattro medici e centosettanta infermieri che si occupavano di millecento pazienti:
«uomini nudi, legati; donne vestite con povere vestaglie di tela, nude sotto, invece dei pannolini avevano carta da giornale. Vetri rotti, acqua per terra, sporcizia dappertutto»[11].
Giunto in auto all’altezza della fabbrica del vetro Bormioli, Tommasini prese una decisione: non avrebbe rimesso il mandato, ma avrebbe restituito quelle «persone alle loro famiglie» e se non fossero state accettate dai parenti avrebbero avuto appartamenti in affitto in modo da farle uscire dall’ospedale psichiatrico[12]. Per Tommasini l’alternativa ad un ospedale psichiatrico fatiscente non era un ospedale migliore, ma la sua chiusura.
[1] Cfr. Ferruccio Giacanelli, L’Ospedale Psichiatrico di Colorno nella storia della psichiatria di Parma. Relazione letta al Convegno “La chiusura dell’Ospedale psichiatrico di Colorno: proposte per la futura psichiatria di Parma”, Colorno (PR), 25 ottobre 1996, “Psicoterapia e scienze umane”, n. 4/2012, p. 576.
[2] Luigi Tomasi, L’ospedale psichiatrico provinciale dal 1948 al 1955, Tip. Giacomo Ferrari & figli, Parma 1956, pp. 7, 8, cit. in Ferruccio Giacanelli, L’Ospedale Psichiatrico di Colorno, cit., p. 576.
[3] Cfr. ivi, pp. 8-14.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Ferruccio Giacanelli, L’Ospedale Psichiatrico di Colorno, cit., p. 577.
[6] Cfr. ivi, p. 578.
[7] Cfr. Ferruccio Giacanelli, L’Ospedale Psichiatrico di Colorno, cit., p. 576.
[8] Ilaria La Fata, Le vene aperte di Colorno, in La fabbrica dei matti. L’ospedale psichiatrico nei racconti di alcuni colornesi ai ragazzi, a cura di Margherita Becchetti, Ilaria La Fata, Maria Teresa Moschini, Comune di Colorno, Parma 2008.
[9] Fondazione Mario Tommasini ONLUS, Il manicomio di Colorno, http://www.mariotommasini.it/tommasini/colorno.asp, consultato il 10/7/2014.
[10] Cfr. Vincenzo Tradardi, La psichiatria a Parma ai tempi di Mario Tommasini e Franco Basaglia, “Aut Aut: rivista bimestrale di filosofia e di cultura”, n. 342 (aprile-giugno 2009), p. 186.
[11] Mario Tommasini, Il mio rapporto con Basaglia. Intervista di Giovanna Gallio, «Aut Aut: rivista bimestrale di filosofia e di cultura», n. 342 (aprile-giugno 2009), pp. 21, 22.
[12] Cfr. ivi, p. 22.