Il problema delle minoranze linguistiche nell’Italia Fascista. Parte terza.
Emiliano affronta nella terza e ultima parte del suo articolo i problemi riguardanti i provvedimenti che interessano invece la sfera pubblica. Si ricorda ancora una volta che la fonte principale dell’articolo è Gabriella Klein, La politica linguistica del fascismo
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di Emiliano Bonomi
La toponomastica
Il R.D. del 29 marzo 1923 che sanciva l’uso dell’italiano nei nomi di luogo delle nuove province del regno fu una delle prime misure, adottate dal governo, riguardanti la questione della lingua, addirittura precedente all’obbligo dell’uso dell’italiano come lingua d’istruzione.
Al decreto erano allegate le traduzioni in Italiano dei comuni più importanti, mentre per quanto riguarda gli altri toponimi (un numero abbastanza esiguo) rimase consentita la forma bilingue, purché sempre preceduta dalla forma italiana.
Per la stesura di questo decreto il governo si avvalse di una speciale commissione, istituita ancora in epoca liberale (1921), che aveva l’incarico di stabilire i criteri per la scelta dei toponimi dei territori annessi dopo la guerra; questa commissione era suddivisa in due gruppi, il primo studiava il Trentino-Alto Adige mentre il secondo lavorava per i territori della Venezia Giulia.
La commissione utilizzò come linee guida, almeno per la regione tedesca, le direttive, redatte anni prima, da Ettore Tolomei, membro della sottocommissione per il Trentino-Alto Adige. È il caso di spendere qualche parola per presentare questo personaggio, precursore e principale sostenitore dell’assimilazione italiana del Südtirol. Tolomei fu geografo, pubblicista e senatore (dal ’23); nel 1906 fondò la rivista «Archivio per l’Alto Adige», che aveva lo scopo deliberato di dimostrare l’italianità di questa regione e nel 1916 pubblicò il suo «Prontuario» dei nomi locali dell’Alto Adige. Introducendo il testo, presentò il suo obbiettivo di restituire italianità, in base a presunti criteri storico-linguistici, ai toponimi «germanizzati», di origine latina o italiana, «quasi irriconoscibili in molti casi sotto la secolare deformazione tedesca». Nel primo dopoguerra fu incaricato dal primo ministro Orlando di dirigere una commissione per la lingua e la cultura nell’Alto Adige. Inoltre Tolomei, che conosceva Mussolini già prima della guerra, fu tra i primi ad aderire al PNF, esercitando una grande influenza sul Duce.
Tornando ora al decreto del ’23, questa disposizione ebbe numerose ripercussioni pratiche: gli editori furono obbligati a ristampare carte geografiche, guide, libri di testo di geografia, cartoline illustrate e quant’altro con i nuovi nomi italiani; dal ’25 venne, inoltre, imposto di indicare la dizione ufficiale del paese sulla corrispondenza, in caso contrario non veniva recapitata.
Continuando in questo sforzo di italianizzare le nuove province si arrivò, con l’inoltrarsi degli anni ’20, a cambiare i nomi delle strade e delle località più piccole e sperdute, giungendo, secondo una dichiarazione di Tolomei, alla totale italianizzazione alla fine del 1936.
La zona più colpita da questa ristrutturazione toponomastica, è sicuramente l’Alto Adige che, con l’opera zelante di Tolomei, sulla carta viene radicalmente trasformato; anche se in misura minore, la Venezia Giulia e la Val d’Aosta vennero anch’esse interessate dal processo di italianizzazione.
Il regime delle scritte pubbliche
Stampato a tergo della cartolina:“Associatevi alla Dante Alighieri che diffonde in tutto il mondo la lingua e la cultura dell’Italia imperiale”
Nella categoria scritte pubbliche, non rientrano solo le insegne di negozi o attività ma anche tutti quegli stampati destinati al pubblico, come ad esempio i dépliants pubblicitari o i menù dei ristoranti.
Il primo provvedimento preso a riguardo venne emanato dal neonominato prefetto della provincia di Trento, Giuseppe Guadagnini, il 26 novembre 1922. Veniva prescritto, per tutta la Venezia Tridentina, l’uso dell’italiano o la sua priorità grafica nelle scritte bilingui per tabelle, cartelli, insegne, tariffe o comunque iscrizioni in tedesco esposte al pubblico.
A pochi mesi di distanza, il 23 marzo 1923, seguì un altro decreto del prefetto Guadagnini che imponeva ulteriori restrizioni, abolendo il regime di bilinguità ad eccezione, in via del tutto provvisoria, delle scritte pubbliche che si trovassero in quei comuni dove le scuole elementari non usavano ancora l’italiano come lingua d’istruzione (come sappiamo questo problema persistette fino alla fine degli anni ’20), purché nelle scritte in tedesco fossero usati caratteri latini, e purchè fossero meno appariscenti di quelle in italiano.
Da notare, a riguardo, che sul resto del territorio nazionale, in questo periodo, erano ancora permesse insegne pubbliche in lingua straniera, anche se già penalizzate da una tassazione più elevata rispetto alle scritte in italiano: «il tedesco, con funzione di lingua straniera, ha ancora uno status di lingua tollerata; mentre il tedesco, con funzione di lingua minoritaria […] è scoraggiato e addirittura vietato». Questa diversità di trattamento, come sottolinea giustamente la Klein, non dipende dalla «lingua in se stessa, ma [dalla] funzione e [dallo] status che essa riveste nella comunità linguistica».
I provvedimenti di Guadagnini furono criticati aspramente sia a livello istituzionale, con le proteste di alcuni parlamentari altoatesini che chiesero l’annullamento dei decreti (proteste infruttuose, in quanto respinte), sia a livello popolare in quanto tra i commercianti e i ristoratori di Bolzano si registrarono numerose multe per la reticenza ad adattarsi alle norme.
I decreti riguardanti questa materia si moltiplicarono dal ’27: progressivamente anche il prefetto di Bolzano, Umberto Ricci, emanò una serie di norme che progressivamente sanzionarono l’uso dell’italiano in varie settori (banche, farmacie ecc.) fino a quando, con il decreto prefettizio dell’11 ottobre 1927, venne ammesso l’italiano come unica lingua. Anche la Chiesa non venne risparmiata da questi provvedimenti, sebbene il Concordato le concedesse qualche magra libertà.
Un’altra ironica forma di protesta che si sviluppò tra gli esercenti fu di usare insegne con scritte in italiano non corretto. Così si potevano leggere scritte del tipo “mantello che non lascia l’acqua” o “divieto lo scarico”. Le autorità bolzanine si videro quindi costrette ad emanare un ulteriore provvedimento in cui era specificato che le scritte italiane dovessero essere redatte nella corretta dizione.
Questi provvedimenti colpirono soprattutto l’area tedescofona, in Venezia Giulia i divieti furono più blandi e il regime di bilinguità restò in vigore fino al 1927. Fu con l’intensificarsi della tensione tra Italia e Jugoslavia che le regole divennero più rigide: il PNF prese direttamente in mano la questione imponendo la cancellazione delle scritte slave dalle insegne e, in caso di non adeguamento, i negozi vennero colpiti dalle incursioni squadriste.
La lingua nella pubblica amministrazione
Nel corso del biennio ’23-’24 vennero presi una serie di provvedimenti riguardanti gli uffici comunali e provinciali che stabilivano che l’abilitazione a “segretario comunale” fosse riconosciuta solo a quanti fossero padroni della lingua italiana e che per tutti gli impiegati del vecchio regime austriaco ancora in servizio fosse obbligatoria la conoscenza dell’italiano. Il succitato Guadagnini, prefetto di Trento, nella serie di decreti che emanò nel corso del ’23, prescrisse che per tutti gli enti pubblici, o gli uffici da questi dipendenti, della provincia la lingua d’ufficio fosse solo quella italiana. Anche ad Aosta, cercando di emulare il caso trentino, si tentò di tenere fuori il francese dagli atti amministrativi; l’iniziativa però venne fermata dal Ministero della Giustizia in quanto la Val D’Aosta godeva di un regime agevolato rispetto alle altre province.
Nello stesso anno si prescrissero delle modifiche anche all’ordinamento giudiziario delle nuove province, disponendo che i magistrati senza un’adeguata conoscenza dell’italiano venissero sospesi. A questa norma se ne aggiunse una del 1925 in cui s’impose l’obbligo dell’uso della lingua nazionale in tutti gli uffici giudiziari, prevedendo delle sanzioni pecuniarie per chi non si fosse adeguato. In campo giudiziario per la sola città di Fiume, a norma degli accordi internazionali, vennero previste delle eccezioni.
Infine nel ’29 si cercò di regolare l’uso della lingua anche nel settore delle attività notarili, iniziativa che non portò però a risultati significativi per il grande numero di documenti e atti ancora prodotti nelle lingue minoritarie.