Il problema delle minoranze linguistiche nell’Italia Fascista. Parte seconda.

dante


Emiliano continua la sua trattazione del problema delle minoranze linguistiche nel Ventennio,parlandoci stavolta dei provvedimenti che interessano la sfera privata.
Si ricorda che, vista l’esiguità dei contributi tuttora disponibili, il riferimento bibliografico principale è Gabriella Klein, La politica linguistica del fascismo


Ti sei perso le altre parti dell’articolo? Clicca sui link qui sotto per leggerle:

di Emiliano Bonomi

Le politiche linguistiche nell’istruzione scolastica

Balilla_adunata

L’anno 1923 segnò un cambio di rotta nel rapporto Stato-minoranze linguistiche, dal precedente clima di semi-tolleranza ad una politica sempre più indirizzata all’assimilazione. La riforma Gentile (R.D. 1 ottobre 1923) sanciva formalmente l’obbligo dell’uso dell’italiano come unica lingua di istruzione nelle scuole del Regno, con la possibilità in aree mistilingui di studio della lingua locale in ore aggiuntive, previa richiesta delle famiglie all’inizio dell’anno scolastico. In questa prima fase l’insegnamento della lingua della minoranza non era ancora vietato ma scoraggiato, in quanto i genitori che ne avessero fatto richiesta potevano essere bollati come anti-italiani. A partire dalla prima classe dall’anno scolastico ‘23-‘24 nelle scuole alloglotte venne quindi adottato l’italiano, arrivando ad una completa italianizzazione entro la fine dell’anno scolastico ‘27-‘28. Negli anni di transizione, nelle classi in cui l’insegnamento si svolse ancora in lingua diversa dalla lingua nazionale, venne previsto lo studio di quest’ultima per cinque ore settimanali nelle prime tre classi, e per sei nelle successive. La conoscenza dell’italiano era un elemento indispensabile per la promozione alla classe successiva.

Qualche giorno prima della riforma, il 27 settembre, venne approvato un R.D. che interessava le scuole medie e magistrali delle nuove province: il decreto obbligava l’uso dell’italiano come lingua d’insegnamento dall’anno ‘27-‘28, procedendo gradualmente dalla prima classe del corso inferiore. Ma già nel ’24 nelle scuole medie superiori le lingue minoritarie erano considerate semplicemente come seconde lingue e, nello stesso anno, per iscriversi agli istituti magistrali in lingua minoritaria era necessario superare un esame di italiano.

Fu poi sotto il magistero Fedele che, con il R.D.-L. 22 novembre 1925, venne definitivamente abolito l’insegnamento delle lingue minoritarie, togliendo anche la possibilità delle ore aggiuntive nelle scuole elementari.

1932-pagella-balilla-copertina

I vari provvedimenti legislativi toccavano direttamente anche il corpo insegnante: inizialmente, la riforma Gentile prevedeva per l’insegnamento della lingua straniera nelle ore aggiuntive di dare preferenza a quei maestri che avessero l’abilitazione all’insegnamento dell’italiano, stabilendo che le abilitazioni rilasciate dal precedente governo austriaco non fossero più riconosciute. I maestri sprovvisti, per ottenerla, dovevano superare un apposito esame. Di prassi però si preferiva non reintegrare i maestri senza abilitazione ma trasferirli in altre province o prepensionarli per sostituirli con maestri «di buoni sentimenti nazionali e di lingua italiana», come recita il Testo Unico per l’istruzione elementare del 22 gennaio 1925. Nel novembre dello stesso anno un ulteriore decreto imponeva agli insegnanti alloglotti, sprovvisti di abilitazione per l’italiano ma ancora in servizio, di conseguirla, pena la rimozione dall’incarico. Gli insegnanti senza abilitazione erano ostacolati anche nella possibilità di dare lezioni private, in quanto quest’ultime erano suscettibili di veto da parte dell’ispettore scolastico, che generalmente riteneva che nuocessero alla formazione del “buon cittadino italiano”. Per velocizzare l’opera d’italianizzazione nel ’28, tramite decreto, si imponeva il trasferimento in altre province di un gran numero di insegnanti alloglotti.

Per raggiungere anche quella parte di popolazione già uscita dal sistema scolastico, dal ’25 in poi, vennero istituiti corsi serali di lingua italiana, in alcuni casi gratuiti, in altri a frequenza obbligatoria, promossi dai comuni e dall’Opera Nazionale d’Assistenza all’Italia Redenta.

È evidente come questi provvedimenti legislativi obbedissero al preciso scopo, come più volte dichiarato da parlamentari e ministri in quegli anni, di forgiare una nuova coscienza nazionale; a tal scopo vennero previsti premi e borse di studio per studenti alloglotti, volti ad incentivare l’iscrizione alle scuole italiane e all’apprendimento della lingua nazionale, e si concessero agevolazioni e indennità ad insegnanti italiani che prestarono servizio nelle nuove province del regno.

Una risposta decisa e contraria a questo processo coatto d’italianizzazione venne dalla formazione di scuole private clandestine e dall’azione del clero attraverso il catechismo. Il fenomeno delle scuole clandestine si sviluppò soprattutto nell’area del bolzaneto a partire dal 1925 riuscendo a creare addirittura più di trecento classi alla fine degli anni ’30: veniva impartito l’insegnamento elementare in lingua tedesca e i corsi si svolgevano in luoghi d’incontro quotidiano, come fienili, chiese ed osterie, cosicché queste scuole vennero soprannominate “Katakomben-Schulen”, scuole-catacomba. Anche se non riscosse i risultati sperati per mancanza di fondi e di insegnanti, fu uno dei tentativi più concreti di resistere alle politiche di assimilazione[1].

Con il riavvicinamento politico tra Italia e Austria, ed in seguito con la Germania, la situazione per la minoranza tedesca migliorò nettamente: nel ‘34 vennero ripristinate le scuole private con l’insegnamento del tedesco, nel ’35 fu nuovamente possibile studiare il tedesco nelle elementari della provincia di Bolzano e infine nel ’39, in seguito all’accordo italo-tedesco relativo all’opzione per la cittadinanza, si riaprirono addirittura alcune scuole tedesche destinate a coloro che scelsero di diventare tedeschi.

L’onomastica

Ettore_Tolomei_portrait

Nel complesso delle politiche di italianizzazione delle minoranze si spesero anche molte energie nel tentativo di italianizzare nomi di battesimo, cognomi e titoli nobiliari. Quest’opera intrapresa dal regime mosse i primi passi nel ’26 per l’Alto Adige e nel ’27 per la Venezia Giulia, anche se già nel 1921, le prime voci, come quella di Ettore Tolomei, presentarono al pubblico il problema di far partecipare anche l’onomastica al processo d’assimilazione linguistica e nazionale.

Questa iniziativa, estremamente invasiva e prevaricante i diritti della persona, venne giustificata dal governo con la pretesa legittimità di restituire la forma italiana ad un cognome, dopo secoli di dominio austriaco.

Il R.D.-L. del 10 gennaio 1926 diede il via, per la zona tedesca, all’italianizzazione dei cognomi e predicati nobiliari prescrivendo che:

«le famiglie […] che portano un cognome originario italiano o latino tradotto in altre lingue o deformato con grafia straniera o con l’aggiunta di un suffisso straniero, [riesumassero] il cognome originario nelle forme originarie. [Vengano] ugualmente ricondotti alla forma italiana i cognomi di origine toponomastica […] i cui nomi erano stati tradotti in altra lingua, o deformati con grafia straniera, e altresì i predicati nobiliari tradotti o ridotti in forma straniera.»[2]

Per i cognomi di origine straniera, almeno sulla carta, l’italianizzazione era puramente facoltativa. Ai prefetti era destinato il compito di stilare gli elenchi dei cognomi e dei predicati nominali da sostituire.

Nel biennio ’27-’28, su richiesta del prefetto di Trieste, Fornaciari, questi provvedimenti destinati alla popolazione tedesca vennero estesi a tutte le popolazioni delle nuove province annesse.

Come conseguenza dei provvedimenti e della scarsa preparazione dei funzionari pubblici nello svolgere questo genere di lavoro, si verificarono in più di un’occasione casi bizzarri in cui a familiari con lo stesso cognome, dopo l’italianizzazione, fu assegnato un cognome diverso, perché decisi da uffici differenti. Anche se in linea teorica vi era la possibilità per il cittadino di far ricorso contro il cognome assegnato, in pratica nessuno dei ricorsi fu accolto.

Stando alle statistiche, quest’opera di italianizzazione dei cognomi ebbe molto più successo nella Venezia Giulia che nell’Alto Adige, dove la sostituzione con cognomi italiani, anche se d’obbligo, non attecchì più di tanto. Inoltre con il riavvicinamento a livello internazionale tra Austria e Italia nel 1930, il governo fascista rinunciò alla sua battaglia del cognome nella regione. Al contrario, nell’area giuliana nel ’28 si passò addirittura all’italianizzazione dei nomi di battesimo, giustificando l’operazione con il fatto che un nome slavo sarebbe stato ridicolo vicino ad un cognome italiano.

È da segnalare che sul finire degli anni ’30, quando la xenofobia linguistica arrivò ai livelli più alti, venne imposto il divieto di imporre nomi stranieri a bambini con cittadinanza italiana. Fu in questo clima esasperato che si progettò di italianizzare, tra il ’39 e ’40, diciottomila cognomi francesi, progetto però mai attuato.

adriatico2

Le immagini presenti nell’articolo sono di Pubblico Dominio. Clicca per raggiungere le fonti. L’ultima è tratta da Autobiografia del fascismo, a cura di Enzo Nizza, Sesto San Giovanni, 1974


[1] P. Dogliani, Il fascismo degli italiani, cit., p. 262.

[2] Art.1 del R.D.-L. 10 gennaio 1926, n. 17, cit. in G. Klein, La politica linguistica del fascismo, cit., p. 106.

Leave a Reply