Il problema delle minoranze linguistiche nell’Italia Fascista. Parte prima.
Emiliano, alias l’amico delle minoranze come ama definirsi, ci introduce una sua serie di articoli sull’italianizzazione forzata delle popolazioni alloglotte della penisola durante il regime fascista. Buona lettura!
di Emiliano Bonomi
«Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo e di tutto. Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che Dante creava, il Macchiavelli scriveva, il Ferruccio parlava. Sapete infine che parecchi valenti uomini si dettero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancora credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale…»[1]
Queste poche parole del Settembrini sono esplicative di quanto il rapporto lingua-nazione sia stato uno dei principali vettori dell’affermazione dei moderni stati nazionali europei. Fin dagli esordi del mondo contemporaneo, infatti, questo binomio è stato uno dei perni più importanti della vita politica: per i vari nazionalismi l’ottenimento della libertà degli individui è sempre stato subordinato all’ottenimento di autonomia politica della comunità di cui questi individui facevano parte: una comunità legata da comuni origini, tradizioni, costumi e per l’appunto da una lingua comune[2].
Quando il partito fascista iniziò la sua scalata alle istituzioni dello stato liberale, nel ’22, l’affermazione dell’italiano come lingua di unità nazionale era ancora lungi dal definirsi completa: l’italiano era effettivamente usato da una stregua minoranza di persone, principalmente dalle classi dirigenti e dalla popolazione urbana delle grandi città, mentre la maggioranza comunicava ancora attraverso una serie di idiomi diversi dall’italiano quali dialetti, vernacoli e lingue minoritarie:
«l’Italia più che una nazione con minoranze era una nazione con un’identità minoritaria, quella italiana, dentro un mare di identità di dimensioni, origini e consistenza molto diversa tra loro, che ancora la nuova nazione doveva integrare ed assorbire.»[3]
Interpretando il sentimento della piccola borghesia istruita, mossa da ideali nazionalistici, il fascismo si pose l’obiettivo di unificare l’Italia anche dal punto di vista linguistico, attraverso una politica che mosse i suoi primi passi nel ’23 e che, pur con qualche compromesso dovuto alle opportunità politiche, progressivamente si radicalizzò fino a concretizzarsi pienamente nella seconda metà degli anni ’30[4]. Ponendosi come fine l’unità linguistica del paese, questa politica si proponeva essenzialmente di scardinare l’uso dei dialetti e dei vari regionalismi, di italianizzare le minoranze linguistiche presenti in patria e di battersi contro gli esotismi a favore di un integrale purismo linguistico[5]. Possiamo quindi parlare di più fasi della politica linguistica del regime, che si svilupparono in tempi e dimensioni diverse[6].
Per approfondire questo tema, vista l’esiguità dei contributi tuttora disponibili, mi servirò principalmente della trattazione di Gabriella Klein in “La politica linguistica del fascismo”[7].
L’opera d’italianizzazione fu rivolta soprattutto alle minoranze etniche, gruppi considerati estranei alla nazione. Ufficialmente lo status di minoranza etnica era riconosciuto solamente a quelle popolazioni non italiane che vivevano nelle nuove province annesse nel primo dopoguerra; a queste comunità se ne aggiungevano altre che non si considerava differissero etnicamente dagli italiani, ma piuttosto per fattori linguistici, come le comunità di lingua francese o francofona della Val d’Aosta. Ad eccezione di queste poche realtà, le altre minoranze non riconosciute presenti sul territorio nazionale non furono interessate dal processo normativo di cui il fascismo si fece promotore .[8]
I provvedimenti linguistici presi dal fascismo per l’assimilazione delle popolazioni alloglotte toccarono sia la sfera privata, con disposizioni che interessavano l’onomastica e l’istruzione scolastica, sia la sfera pubblica, dove vi furono interventi nel campo della toponomastica, della pubblica amministrazione e nel regime delle insegne pubbliche.
L’educazione, sia scolastica che extra scolastica, in quanto veicolo principe di formazione del nuovo italiano, giocò un ruolo fondamentale nella politica d’italianizzazione intrapresa dal regime, non solo attraverso le riforme della scuola, ma tramite anche le organizzazioni giovanili del PNF e l’intensa propaganda che investì tutti gli ambiti della cultura.
Si può affermare, come fa Farinelli, che le istituzioni fasciste, pur puntando ad un’assimilazione completa dei gruppi considerati “estranei alla nazione”, non perseguirono una cieca repressione, limitandosi ad un’azione legislativa e sanzionatoria; furono gli squadristi, soprattutto nella regione giuliana, che si incaricarono di perseguitare chi protestava contro le politiche governative o chi si fosse macchiato di sentimenti antitaliani. Con la radicalizzazione generale del regime, anche i provvedimenti che si susseguirono diventarono sempre più estremi e invasivi, tracciando un percorso che culminò con le politiche di occupazione dei territori annessi durante la Seconda Guerra Mondiale, dove l’italianizzazione venne perseguita con metodi brutali arrivando anche alla deportazione delle popolazioni. L’estremismo di questi metodi rispetto a quelli applicati nel territorio nazionale dipende dal fatto che, in patria, il regime, per quanto totalitario, trovava nell’ordinamento giuridico preesistente e nella Chiesa limiti che impedirono di applicare l’ideologia fino alle sue estreme conseguenze[9].
Va tenuto presente, inoltre, che con il passare degli anni le istituzioni periferiche, come le prefetture, preposte dal governo centrale per l’attuazione delle varie politiche linguistiche, diventarono autonome e, in alcuni casi, si fecero pianificatrici esse stesse di provvedimenti riguardanti la lingua. Le istituzioni accademiche, dal canto loro, si mostrarono acquiescenti di fronte alle politiche integraliste del regime, e non mancarono di sostenerlo attraverso le loro attività culturali.
[1] L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, cit. in T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1999, p.1.
[2] Ivi, p. 4.
[3] M. A. Farinelli, Il fascismo ad Alghero. Italianizzazione alla periferia del regime, in «Insula. Quaderno di cultura sarda», n. 6 (2009), p. 69, http://www.sre.urv.es/irmu/alguer/docs/insula_06.pdf, 24/07/2014.
[4] P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, UTET, 2008, p. 259.
[5] G. Klein, La politica linguistica del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 22.
[6] G. C. Jocteau, La lingua e la storia del Fascismo. Un difficile terreno, in «Movimento operaio e socialista», a. VII n. 1 (1984), p. 7.
[7] G. Klein, La politica linguistica del fascismo, cit. pp. 69-110.
[8] M. A. Farinelli, Il fascismo ad Alghero, cit. pp.70-71.
[9] Ivi, pp. 70-73.