La ricerca del Prete Gianni. L’appoggio dei cattolici italiani alla guerra d’Etiopia. Terza Parte.

banneretiopia


Bruno prosegue la sua narrazione del rapporto tra clero cattolico e regime fascista durante la seconda guerra italo-abissina. Come già ricordato, la bibliografia di riferimento verrà pubblicata insieme all’ultima parte del dossier. Inoltre, per una breve cronologia dell’impresa italiana nella terra del Prete Gianni potete consultare la nostra timeline sulla Guerra d’Etiopia


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Il 18 dicembre 1935, la popolazione italiana viene chiamata a partecipare a una grande iniziativa propagandistica, che si rivela presto uno dei più grandi successi del regime nella ricerca del consenso: la “Giornata della Fede”. Milioni di italiani, e in particolare le donne, vengono chiamate dal regime a donare, in roboanti cerimonie pubbliche[1], la propria fede d’oro in sostegno della guerra in Etiopia, minacciata nella sua riuscita dalle sanzioni della Società delle Nazioni. In cambio sarebbe stata consegnata una fede in acciaio.
dona oro
La genesi dell’iniziativa non è facilmente ricostruibile, in quanto coinvolge a diversi livelli la base del PNF e i suoi vertici, ma si può dire che l’idea provenisse dal basso, e che anzi Mussolini e gli altri gerarchi avessero inizialmente avuto difficoltà ad accettare la necessità di una donazione volontaria in sostegno della guerra a poche settimane dall’apertura del conflitto.
Ben presto però i gerarchi si accorgono dell’enorme potenziale propagandistico che potrebbe avere l’iniziativa se coronata dal successo: non solo avrebbe legittimato la guerra in Africa agli occhi della comunità internazionale in quanto vera espressione della volontà popolare, ma avrebbe finalmente coinvolto, in un atto spettacolare e inequivocabile, l’intera popolazione nella costruzione del comune destino nazionale. Già prima del 18 dicembre il regime si adopera nella raccolta di metalli preziosi, ma in quella data viene decisa la cerimonia che avrebbe dovuto dare significato all’intera iniziativa.

La “Giornata della Fede”, seguita da altre analoghe donazioni nelle settimane seguenti, ebbe un enorme successo, anche al di là delle aspettative del regime.

La cerimonia assume un’importanza centrale nel rapporto tra cattolici e regime. È ben chiaro al governo che l’appoggio della Chiesa è fondamentale per convincere gli italiani a separarsi di un oggetto, l’anello, che pur non facendo parte effettivamente della liturgia sacramentale rappresentava per chiunque il legame sacro del matrimonio. La benedizione degli anelli sostitutivi in ferro significava molto per la legittimazione religiosa dell’iniziativa.

oro alla patria

La didascalia dell’immagine recita: Oro alla patria – l’oro dai figli offerto alla gran Madre con empito fraterno sui suoi figli rifluisce con triplicato valore

Il clero non attende istruzioni ufficiali, e mostra fin da subito entusiasmo, tanto che Mussolini già il 4 dicembre detta istruzioni affinché venga ufficialmente ringraziato l’episcopato italiano per il suo impegno. Ma non è solo il clero a partecipare con le sue omelie, anche tutto il resto del mondo cattolico si impegna con pubblicazioni, articoli per diffondere le ragioni della propaganda di regime, che a sua volta amplifica l’impegno dei religiosi. La stampa di regime (nel particolare “La Tribuna” del 21 novembre 1935[2]) riconosce questa essere la prima volta in cui il mondo cattolico, e la Chiesa in particolare, partecipa in modo organico e compatto al sostegno di un’iniziativa patriottica. Non solo l’alto clero si occupa di donare oggetti d’oro legati all’ufficio episcopale, ma anche a livello parrocchiale i parroci organizzano raccolte di metalli preziosi. In particolare il coinvolgimento dell’episcopato è massiccio e spettacolare: i gesti dei vescovi, che a volte travalicano anche le leggi della Chiesa, come nel caso del vescovo di Monreale che ordina di fondere gli ex­ voto dei fedeli della sua diocesi, vengono enfatizzati e strumentalizzati dalla propaganda, e additati come esempio per la mobilitazione popolare.

«Interpretato dai suoi coreografi come sposalizio simbolico con la patria, la giornata della Fede spettacolarizzava, confondendoli, simboli e rituali nazionalfascisti e cattolici. Il coinvolgimento dei cattolici si innestava in un apparato ideologico e organizzativo costruito dal fascismo, ma generava […] iniziative autonome, persino inaspettate, e si esprimeva in una simbiosi di linguaggi religiosi e politici spesso privi di distinguo.»[3]

Riappare nel discorso clericale il tema del sacrificio, che, collegato al tema della guerra e della morte per la patria, si era già manifestato durante il primo conflitto mondiale. Non è un caso infatti che sia proprio Agostino Gemelli a riprendere fortemente questo tema, esaltando in questa occasione il valore sacrale che ha questo “piccolo” sacrificio nel ribadire con forza l’unità della nazione.
Il registro della propaganda è sostanzialmente cambiato: da una legittimazione della guerra come “difesa” dall'”attacco” sanzionista alla sacralizzazione della patria in armi. Il connubio tra Chiesa e Stato legittima e sacralizza, agli occhi dell’episcopato, la missione civilizzatrice che l’Italia ha di fronte a sé in Africa Orientale.

liberazione

Le voci del dissenso nell’episcopato sono praticamente nulle. Due i casi più clamorosi di dissenso, e nessuno dei due per motivazioni chiaramente antifasciste o pacifiste: l’arcivescovo di Firenze, Elia Dalla Costa, che insiste sul carattere religioso e apolitico del suo ministero e rifugge quindi da ogni compromissione col regime, e mons. Geisler, vescovo di Bressanone, che rifiuta la mobilitazione nazionale in quanto ostile allo Stato italiano (e vicino invece alla Germania nazista).

L’enorme sostegno assicurato dall’episcopato, se da una parte conferma il consenso che il regime era riuscito a costruire in ambito cattolico a partire dal 1929, dall’altra rivela però una fondamentale debolezza del regime, che pure a più di dieci anni della presa del potere necessita ancora di un sostegno esterno (la Chiesa, ma ugualmente la monarchia partecipa all’iniziativa) per la legittimazione del suo agire politico. Non bisogna inoltre sopravvalutare l’enorme successo dell’iniziativa. È pur vero che la quantità di fedi raccolte eccede le aspettative del regime, ma bisogna tener conto della forte pressione sociale che venne fatta sulla popolazione, specialmente sulle donne, che pur non assumendo mai i caratteri della coercizione (sarebbe venuto meno il carattere volontario della donazione, e quindi il senso dell’intera iniziativa) influì in maniera decisiva sulle decisioni dei singoli[4].
D’altra parte è utile ricordare che la raccolta di metalli preziosi, che si svolge come già ricordato parallelamente alla donazione delle fedi, ebbe un ugualmente grande successo pur svolgendosi con minore pressione.

Regigiuliani

La mobilitazione dei cattolici non si ferma al fronte interno. Sono molti ad arruolarsi volontari per la guerra africana, e particolarmente interessante può essere delineare le caratteristiche di un fenomeno peculiare, ovvero quello dei cappellani militari.

Già dalla guerra di Libia, e poi ancora di più durante il primo conflitto mondiale, l’Italia liberale aveva rinunciato al laicismo delle origini per includere nel proprio esercito il corpo dei cappellani militari, non solamente cattolici. Per questi ultimi però il Concordato aveva significato un’ulteriore spinta verso la legittimazione e lo sviluppo dell’istituzione.

Sebbene le motivazioni che portano all’arruolamento volontario potessero essere molteplici, e non sempre disinteressatamente ideali e nemmeno frutto di una libera scelta, non si può negare che la prospettiva della conquista dell’impero attirasse, già dalle prime avvisaglie di guerra, molti ferventi fascisti, e tra questi anche un certo numero di preti[5].
Non è possibile non prendere come esempio il più celebre dei cappellani militari fascisti, il già citato Reginaldo Giuliani.

«[Di Giuliani] fu detto: “Avrebbe dovuto nascere crociato: la lorica sotto la bianca tunica crocesignata”. Un altro lo definì “un mezzo frate”, “non frate, ma un soldato!” o anche “un fascista in tenuta domenicana”. Forse il suo stesso biografo ammise che “senza saperlo e quasi istintivamente aveva preso un fare marziale e, per la lunga abitudine fatta, usava talvolta un linguaggio e tratto alquanto soldatesco”.»[6]

Prima di arruolarsi Giuliani officiava nella diocesi di Torino, dove era già noto per la sua ardente fede fascista e per i contrasti con la curia diocesana. Si arruola nel 1935 nei reparti delle camicie nere, e comincia un’opera di “cristianizzazione” di quei reparti speciali, diventando un punto di riferimento per l’intero corpo della Milizia. La sua morte a passo Uarieu viene abilmente sfruttata dal regime e diventa un fatto di enorme valore propagandistico: vengono stampate cartoline, pamphlet, persino girata una scena (poi tagliata) all’interno del film Abuna Messias. Il cappellano che muore con la croce in mano diventa il simbolo della guerra di civiltà, della crudeltà dei selvaggi che non si fermano nemmeno davanti ai sacri simboli cristiani.[7].

Ugualmente importante, e prezioso, per il regime è fra’ Ginepro da Pompeiana, cappellano del corpo degli alpini, il cui impegno per la diffusione del culto mariano nell’esercito, attraverso la diffusione delle “madonnine”, è così celebre da diventare quasi proverbiale.
L’impegno di fra’ Ginepro è quello tradizionale del cappellano militare: la cura d’anime, il conforto spirituale del “buon soldato”. La sua opera, e quella della maggior parte dei cappellani, si concreta essenzialmente nella legittimazione religiosa della guerra al fronte, che il regime appoggia e sostiene.

La cura d’anime e del morale dei soldati, che doveva essere il fulcro dell’opera dei cappellani militari, in figure come quella di Giuliani e di fra’ Ginepro passa in secondo piano rispetto all’impegno crociato, al sentimento della necessità di contribuire alla vittoria della civiltà cattolica su quella barbara amharica. Nemmeno la parentela fra le religioni dei due fronti opposti, cristiana cattolica l’una e cristiana copta l’altra, frena l’entusiasmo missionario dei crociati fascisti. La prospettiva di cattolicizzazione dell’etiopia è declinata all’interno di un sentimento esclusivo, imperiale e razzista. Il regime di proto­-apartheid immaginato, e in parte realizzato, nell’impero coloniale fascista include necessariamente anche la separazione religiosa: da una parte il dominatore bianco, civilizzato e cattolico, dall’altra il “maledetto amhara”, nero e monofisita.

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Una scena del film Abuna Messias, che narra della missione in Abissinia del Cardinal Guglielmo Massaia (detto appunto Abuna Messias). Girato nel 1939, il film aveva ovvi intenti propagandistici: si trattava di retrodatare l’epopea civilizzatrice italiana già all’Ottocento, mostrando anche la docilità degli abissini nei confronti del messaggio cattolico. Si noti l’attore Enrico Glori, che interpreta re Menelik, truccato con la cosiddetta “blackface”.

In realtà la conquista dell’Etiopia non porterà sostanzialmente a nessuna cattolicizzazione del territorio. Il regime tenterà di spezzare la chiesa copta etiope, separandola dal patriarcato alessandrino e insediando uomini fedeli ai suoi vertici, ma i forti sentimenti nazionalisti del clero monofisita faranno sostanzialmente fallire il tentativo. Il fascismo ripiegherà quindi su una politica religiosa a favore delle comunità islamiche, sperando che la loro influenza potesse intaccare la forza della chiesa cristiana, ma la breve durata del dominio italiano fece sì che non si potessero conoscere i risultati sul lungo periodo di tale politica.

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La conquista d’Etiopia si rivelò un fallimento su molti dei fronti che il fascismo aveva aperto. L’enorme impegno economico e industriale portò a delle spese per l’epoca incredibili a fronte di risultati quasi nulli. L’emigrazione degli italiani nelle nuove terre africane fu molto scarsa, anche perché le grandi e fertili terre dell’impero abissino immaginate dalla propaganda non esistevano. I grandi progetti edilizi, la ricostruzione monumentale e romana di Addis Abeba e delle altre città del corno d’Africa rimasero sostanzialmente progetti, frenati dagli enormi costi di trasporto di materie prime e dalla brevità del dominio italiano. Il regime di apartheid immaginato dal fascismo, benché appoggiato dalla maggior parte dei coloni, non si concretizzò fino in fondo: nonostante gli sforzi profusi da governo e Chiesa per tutto il periodo coloniale continueranno a nascere bambini meticci, con grande scandalo dei puristi della razza.

Ma sopratutto, dal punto di vista dei cattolici, fallì lo scontro di civiltà: al regime non interessava seriamente la diffusione della religione cattolica e non si impegnò mai veramente a favorirla, cosicché il grande grande sforzo missionario e crociato dei cattolici italiani rimase essenzialmente frustrato. Naturalmente, come poteva conciliarsi italianizzazione (e cattolicizzazione) degli etiopi con il regime di separazione delle razze progettato dal regime?

Come già scriveva Tardini nel 1935, il Concordato si era rivelato un cavallo di troia: aveva dato alla Chiesa una libertà d’azione nella società dell’Italia unitaria finora sconosciuta, ma aveva indissolubilmente legato il suo destino a quello del regime fascista. Solo l’enorme tragedia del secondo conflitto mondiale spezzerà tale legame e ridisegnerà il rapporto tra Chiesa e Stato italiano.

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La prima,la quarta e la quinta immagine sono Pubblico Dominio. Clicca per raggiungere la fonte. Le altre sono prese da Autobiografia del fascismo,a cura di Enzo Nizza, Sesto San Giovanni, 1974


[1] Particolarmente spettacolare la cerimonia nella città di Roma, che coinvolge la famiglia reale, in particolare la regina Elena di Savoia, e altre donne di spicco quali Rachele ed Edda Mussolini. Nella capitale la giornata della Fede ebbe un particolare successo, e in totale l’iniziativa coinvolse più del 70% della popolazione (cfr. Petra Terhoeven, Oro alla Patria, in Mario Isnenghi (a cura di), Gli Italiani in guerra, vol. 4, tomo I, Il Ventennio fascista. Dall’impresa di Fiume alla seconda guerra mondiale (1919-­1940), UTET, Torino, 2008, pp. 630, 632

[2] Cfr. Lucia Ceci, Il papa non deve parlare, cit., p. 96

[3] Ivi, p. 99

[4] Terhoeven ricorda inoltre la quantità di espedienti cui molti italiani ricorsero per tenersi la fede, simbolo non solo religioso ma anche dal grande valore affettivo oltre che economico, pur partecipando alle cerimonie pubbliche, quali la sostituzione della fede originale con altri anelli di minor valore o l’acquisto di copie della fede in acciaio del regime. (cfr. Petra Terhoeven, Oro alla Patria, cit., pp. 633-­634).

[5] Ceci riporta alcuni esempi di proclami, lettere o memorie di cappellani militari all’arruolamento durante la prima metà del 1935. Cfr. Lucia Ceci, Il papa non deve parlare, cit., pp. 74­-75

[6] Nicola Labanca, Una guerra per l’Impero, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 190

[7] Non considerando naturalmente che gli stessi etiopi sono di religione cristiana.


Bibliografia:

  • Bruti Liberati Luigi , Il clero italiano nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1982
  • Ceci Lucia, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Laterza, Roma-Bari, 2010
  • Del Boca Angelo, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 2, La conquista dell’Impero, Laterza, Roma-­Bari, 1980
  • Del Boca Angelo, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 3, La caduta dell’Impero, Laterza, Roma-­Bari, 1986
  • Dominioni Matteo, L’Italia fascista “sotto assedio”: le sanzioni, in in Mario Isnenghi (a cura di), Gli Italiani in guerra, vol. 4, tomo I, UTET, Torino, 2008, pp. 643-­651
  • Labanca Nicola, Una guerra per l’impero, Il Mulino, Bologna, 2005
  • Labanca Nicola, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002
  • Marchi Valerio, L’Italia e la missione civilizzatrice di Roma, in “Studi Storici”, anno 36, n°2, 1995, pp. 485-­531
  • Menozzi Daniele, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2008
  • Minighin Giancarlo, Don Primo Mazzolari e le guerre fasciste, in “Studi Storici”, Anno 45, n°4, 2004, pp. 1035-­1111
  • Terhoeven Petra, Oro alla patria, in Mario Isnenghi (a cura di), Gli Italiani in guerra, vol. 4, tomo I, UTET, Torino, 2008, pp. 629-­636

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