La Ricerca del Prete Gianni. L’appoggio dei cattolici italiani alla guerra d’Etiopia. Seconda Parte
Bruno prosegue la sua narrazione del rapporto tra clero cattolico e regime fascista durante la seconda guerra italo-abissina. Come già ricordato, la bibliografia di riferimento verrà pubblicata insieme all’ultima parte del dossier. Inoltre, per una breve cronologia dell’impresa italiana nella terra del Prete Gianni potete consultare la nostra timeline sulla Guerra d’Etiopia
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La stampa cattolica abbandona le iniziali prudenze. Le truppe in partenza dai porti italiani vengono festosamente salutate sulle pagine di giornali come “La Scintilla”, o come il periodico delle associazioni di Azione Cattolica di Pistoia[1]. Sempre più spesso alle truppe in partenza il clero locale riserva la benedizione religiosa, che diventa parte integrante del rituale della partenza, con grande disappunto del Vaticano. Alcuni sacerdoti già dalla prima metà del 1935 si arruolano come cappellani militari per poter partire alla volta dell’Africa Orientale. Per questi individui non è solamente l’adesione al progetto imperiale che spinge a tale decisione, né tantomeno uno spirito di assistenza alle truppe, bensì una vera fede fascista, esemplificata nelle vicende di cappellani come Reginaldo Giuliani, già Ardito nella prima guerra mondiale e legionario fiumano al seguito di D’Annunzio.
Un altro tema dell’adesione cattolica alla guerra è, non diversamente da altri segmenti della società italiana, una fede incrollabile nel duce. Così il monsignor Tesauri, vescovo di Isernia e Venafro:
«Ebbene l’ammirazione ci deve spingere ad imitarne, nelle nostre individuali condizioni e secondo le nostre forze, l’energia, l’abnegazione, l’armonia, lo sforzo immane con cui egli sospinge l’Italia verso le più alte mete. Anche noi dobbiamo instancabilmente migliorare noi stessi contribuendo così alla grandezza della patria.
La fedeltà ci deve rendere rigidi osservatori delle leggi e della disciplina non solo civili ma anche religiose, ricordando che il Duce, come ha instaurato l’ordine nazionale, così ha anche riconosciuto il valore della religione, ponendola specialmente come base della famiglia e come elemento della educazione delle nuove generazioni.
L’affetto poi ci deve fare pregare per la conservazione del Duce e la prosperità della Patria. Specialmente in questa ora di trepida attesa dobbiamo intensificare le nostre preghiere, perchè tutto si compia secondo il disegno provvidenziale di Dio.»[2]
Non è certo casuale il richiamo alla Provvidenza: nell’armamentario ideologico clericofascista il tema della missione africana come necessaria per la sopravvivenza italiana viene ben presto soppiantato dal tema della “missione civilizzatrice” di Roma, che avrebbe dovuto portare la cattolicità romana in un paese arretrato e barbaro. Già nel periodo antecedente alla dichiarazione di guerra alcune riviste clericali avevano pubblicato resoconti sull’Abissinia che, pur non appoggiando esplicitamente il possibile intervento militare, descrivevano lo stato africano come una nazione arretrata e povera, schiavista, amorale, in balia di un malvagio tiranno. Questa operazione sottintendeva neanche troppo implicitamente la moralità di un intervento teso, paternalisticamente, a risollevare i barbari abissini dalla miseria in cui erano caduti, anche per colpa di una chiesa, quella copta, che aveva la colpa di essersi distaccata in tempi antichi dalla sede petrina.
Il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, in occasione del Te Deum celebrato in occasione della vittoria sugli Etiopi nel maggio 1936, espliciterà questa visione provvidenzialistica dell’intervento italiano, citando passi veterotestamentari (la maledizione di Cam) e la «schiavitù dell’eresia monofisita – che è stata la prima e vera origine di tutte le altre miserie morali che per oltre un millennio hanno oppresso quel povero popolo»[3].
La lettura dell’intervento coloniale in chiave paternalistica non è certo una novità nella storia del colonialismo europeo, e anche in Italia viene letto in chiave “laica” dai propugnatori della superiorità della civiltà italicoromana rispetto alle popolazioni africane. È comunque interessante notare come questo tema venga interamente assorbito dall’interventismo cattolico in questa particolare stagione della storia dello Stato italiano, specialmente se paragonato ad una situazione simile: la conquista della Libia in età giolittiana. All’epoca infatti il mondo cattolico aveva assolutamente negato la possibilità di “esportare” il modello culturale italiano (occidentale, cattolico) in territorio musulmano, affermandosi quindi fortemente contro il conflitto. Tale rivolgimento si può spiegare facilmente in realtà con il diverso stato dei rapporti tra Chiesa cattolica e Stato nei due periodi. Fortemente antagonisti all’epoca del liberalismo giolittiano, con Mussolini trovano per la prima volta unità di intenti e sostegno reciproco.
Questo aspetto non è da sottovalutare: nemmeno la Prima Guerra Mondiale era riuscita a unire così fortemente le due istituzioni, che per tutto il conflitto si sostengono senza però abbandonare un reciproco sospetto[4]. Evidentemente la data del 1929 costituisce davvero un passo fondamentale per la ridefinizione del ruolo dei cattolici nella società e nello Stato italiano.
Il cardinale Schuster non era nuovo a questo tipo di dichiarazioni. Data l’alta posizione del prelato, titolare di una delle più importanti arcidiocesi d’Italia, le sue parole suonano alle orecchie dei fedeli come una presa di posizione ufficiosa del clero italiano, complici anche i silenzi della Santa Sede. Nell’ottobre 1935, in occasione della ricorrenza della marcia su Roma, il cardinale pronuncia in duomo a Milano un’omelia che si presenta fin da subito come una chiara e definitiva presa di posizione.
Nelle parole di Schuster il fascismo era lo stumento con cui la Provvidenza aveva cattolicizzato l’Italia, e da questa unione di croce e fascio sarebbe scaturita la missione universale italiana, di cui la conquista d’Etiopia, che sarebbe stata cattolicizzata e romanizzata, era un primo importante passo. La guerra viene quindi legittimata in chiave missionaria. Schuster conclude la sua omelia benedicendo l’esercito italiano, che avrebbe aperto le porte d’Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana «a prezzo di sangue»[5]. Le parole del cardinale vengono riprese con grande enfasi dalla stampa nazionale, suscitando critiche tra i cattolici non italiani e anche da parte del Vaticano.
L’autunno del 1935 è particolarmente importante per il regime. Insieme all’inizio della guerra d’Etiopia si verificano infatti anche due importanti anniversari: quello della marcia su Roma e quello della vittoria del novembre 1918. Il fascismo approfitta di questa coincidenza per rafforzare e moltiplicare lo sforzo propagandistico, con un appoggio pieno del clero, che è partecipe e artefice delle celebrazioni, e che si appropria completamente del linguaggio roboante, patriottico e guerrafondaio del regime. Quel che nel resto d’Europa era già accaduto nel corso della prima guerra mondiale, si verifica solo ora in Italia: il linguaggio patriottico si trasfigura in quello religioso e viceversa, e il clero nazionale diventa uno degli strumenti di mobilitazione nazionale più importanti nelle mani del regime.
Il messaggio religioso-patriottico è molto efficace e pervasivo, tanto che anche figure che in seguito si distingueranno per il loro messaggio di pace, Angelo Roncalli (futuro papa Giovanni XXIII) e don Primo Mazzolari, si trovano coinvolti nella celebrazione di questo momento grandioso. Roncalli, già delegato apostolico in Grecia e Turchia, vede i preparativi per la guerra dal suo soggiorno in Italia per le vacanze, e annota sul suo diario sia la diffidenza che l’adesione, più o meno formale, all’entusiasmo nazionale[6].
Don Mazzolari sembra aver introiettato anche più profondamente le ragioni della guerra propagandate dal regime. Di certo però non apprezza la retorica provvidenzialistica e missionaria propria di gran parte del discorso cattolico:
«L’Italia non si ammanta di una missione civilizzatrice, né si ammanta di quella antischiavista, né si atteggia a missionaria. Il ricordo delle Crociate è nostalgia o reviviscenza di qualche spirito imbelle, che rispolvera ogni angolo del passato per evitare una presa di posizione chiara e responsabile sul presente.»[7]
Tuttavia non si può affermare che Mazzolari neghi il suo appoggio al progetto imperiale. Lo fa anzi proprio, pur depurandolo dalle tentazioni imperialistiche ed espansionistiche proprie del fascismo, accettando però la premessa di fondo: l’Italia necessita di un’espansione sul territorio africano perché povera, assediata dalle altre nazioni coloniali, è bisognosa di terra e pane per i propri figli. Nelle sue lettere del periodo si trovano spesso riferimenti a questo concetto, e viene spesso ricordato come fosse stato nella pace di Versailles il “peccato originale” dell’attuale situazione internazionale. Considerazione questa declinata comunque nel linguaggio nazionale e patriottico che il fascismo aveva capillarmente diffuso e impresso nelle menti della società italiana.
Il Vaticano si trova in una situazione non facile durante il montare della crisi italo-etiopica. La Santa Sede infatti, coerentemente con la politica assunta da Pio XI nei confronti della guerra e della Società delle Nazioni, spinge con tutte le sue forze verso una soluzione diplomatica che possa disinnescare il conflitto prima dell’apertura sempre più incombente delle ostilità[8]. Tuttavia, lo stesso Concordato che aveva così felicemente risolto le tensioni tra Santa Sede e Stato italiano pesa ora come un macigno sull’azione politica del papato: criticare apertamente l’operato di Mussolini avrebbe significato in qualche modo tradire il patto di collaborazione tra Chiesa e Stato suggellato nel 1929. I rischi derivanti da questa scelta sembrano ancora troppo alti: sia dal punto di vista di possibili ritorsioni del regime verso il mondo cattolico[9] sia in termini di malcontento presso la popolazione cattolica italiana, che come sappiamo in questo momento è entusiasticamente fedele a Mussolini e al fascismo. I pericoli insiti nella firma del Concordato vengono rilevati da un insospettabile, mons. Domenico Tardini, che già nel ’35 scrive a papa Ratti che «il disastro più grande» è nel comportamento di clero e vescovi[10].
In effetti, inizialmente l’ostilità del Vaticano è forte e produce non pochi attriti con il governo italiano. Ma il crescere del consenso e la percezione sempre più diffusa dell’inevitabilità del conflitto portano la Santa Sede a riconsiderare la propria politica. Il punto di svolta è sicuramente il discorso pronunciato a Castelgandolfo alle infermiere cattoliche il 27 agosto 1935, che noi sappiamo nella sua forma originale essere stato molto critico nei confronti del progetto imperiale mussoliniano. Le parole forti pronunciate da papa Ratti in quell’occasione preoccupano la curia[11], che si occupa di modificare il discorso che dovrà essere poi consegnato all’opinione pubblica, italiana e non solo: il senso generale del discorso permane, ma viene eliminata la condanna della guerra africana. La forma particolarmente complessa e contraddittoria del discorso, aspetto sicuramente accentuato dalle modifiche, fa sì che esso potesse venire interpretato variamente, anche nel senso di una legittimazione delle pretese imperiali italiane. Pio XI approva le modifiche al testo, che viene così distribuito[12].
Da quel momento la Santa Sede rinuncia a qualsiasi esternazione pubblica (in un senso e nell’altro), atteggiamento che però di fatto si traduce in un appoggio alle iniziative di regime, e come tale viene percepito anche all’estero, con grave discredito del Vaticano. Seppur raccomandando contegno e discrezione da parte dell’alto clero, la curia consiglia ai vescovi collaborazione. Significativamente, però, non si interrompono i tentativi (segreti) di mediazione tra Italia e le altre potenze coloniali, specialmente la Francia, e in seguito anche gli USA, che però naufragheranno inesorabilmente.
La prima immagine è di Pubblico Dominio. Clicca per raggiungere la fonte. Le altre sono prese da Autobiografia del fascismo,a cura di Enzo Nizza, Sesto San Giovanni, 1974
[1] Lucia Ceci, Il Papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 73.
[2] Pietro Tesauri, Il passaggio del Duce, in “Bollettino diocesano di Isernia e Venafro”, 1 settembre 1935, pubblicato per esteso in appendice nel volume di Luigi Picardi, Cattolici e fascismo nel Molise (1922-1943), Studium, Roma, 1995, pp. 212-213, citato in Lucia Ceci, Il Papa non deve parlare, cit., p. 77.
[3] Cfr. Valerio Marchi, “L’Italia” e la missione civilizzatrice di Roma, in “Studi Storici”, n° 2 aprile – giugno 1995, p 514.
[4] Cfr. Luigi Bruti Liberati, Il clero italiano nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1982.
[5] Lucia Ceci, Il Papa non deve parlare, cit., p. 87.
[6] Ceci riporta come esempi: «Nel pomeriggio si dà il segno per l’adunata per l’Abbissinia. Io resto in casa.» e «Però sopra il tetto c’è la bandiera nazionale.» «Dio salvi l’Italia». Lucia Ceci, ibid., pp. 72-73.
[7] Cfr. Giancarlo Minighin, Don Primo Mazzolari e le guerre fasciste, in “Studi Storici” n° 4, ottobre – dicembre 2004, p. 1052.
[8] Cfr. Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 48-52.
[9] Dopo la firma del Concordato le ottime relazioni tra Chiesa e Stato non avevano però impedito lo svilupparsi di una forte competizione tra le due realtà nella formazione e nella mobilitazione della popolazione italiana, marcatamente per quel che riguarda la gioventù. La paura che il regime potesse restringere le già limitate possibilità d’azione del papato non è un fattore da sottovalutare.
[10] Cfr. Lucia Ceci, Il papa non deve parlare, cit., pp.138-140.
[11] Nella persona del Sottosegretario agli affari ecclesiastici straordinari, ovvero lo stesso Tardini.
[11] Cfr. Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, cit., pp. 132133.